Al Kat Zet, la zona d'interesse, la vita scorre placidamente: madri che passeggiano con le figliolette, ricchi pasti serviti alla mensa ufficiali, tediosa burocrazia negli uffici, caldi incontri nelle alcove. Tutto intorno un'altra vita, se questa è vita, freme e spira, a centinaia, a migliaia, giù per le fosse, su per i camini. Ma qui, lungo il viale alberato della zona d'interesse, comprendente terreni, officine e centro residenziale delle SS, due amici d'infanzia, Golo Thomsen, ufficiale di collegamento fra l'industria bellica e il Reich, e Boris Eltz, capitano valoroso e senza scrupoli, possono fantasticare sulle morbide forme della procace Hannah Doli, moglie dello spietato Kommandant del campo, come in un qualunque caffè del centro. Il grottesco per parlare dell'orrore. Amis affida quella dimensione a Paul Doli, che con i suoi tic, le sue ansie e le sue lascivie, incarna tutto l'assurdo del regime. Della tragedia è invece interprete Szmul, capo dei Sonderkommando, "gli uomini più tristi del Lager". Szmul il corvo del crematorio, Szmul che traffica in cadaveri. E resta spazio, nel catalogo delle esperienze umane travolte dall'orrore, per l'investigazione dell'amore in tempo di strage, attraverso il racconto dei turbamenti passional-sentimentali dell'arianissimo Golo, terza voce narrante del romanzo. Ma può nascere qualcosa di buono sullo sfondo dei camini?
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La dolce squallida vita nella Auschwitz di Amis
Paolo Bertinetti, Tuttolibri - La Stampa
La zona d’interesse è un libro da leggere. Per capire, dopo che Benigni lo ha fatto in chiave comico/sentimentale, se è possibile parlare della tragedia dell’Olocausto in chiave grottesca. Martin Amis racconta una storia che intreccia le vicende private di alcuni abitanti della «zona d’interesse» che si trova accanto al campo di concentramento vero e proprio (dell’area, cioè, che ospita gli uffici e le residenze delle SS). Sono l’ufficiale Golo Thomsen, nipote del gerarca nazista Martin Bormann, Paul Doll, il Comandante del campo, e sua moglie Hanna – che Golo, immediatamente dopo averla vista per la prima volta, ha subito provato a immaginare «come potesse essere senza i vestiti».
Una storia di sesso, di pettegolezzi, di tradimenti e di squallida mondanità come quella che potrebbe riguardare dei tranquilli borghesi legati dal comune impiego presso la stessa ditta. Con la differenza che la ditta è Auschwitz: «Un osservatore ostile», dice un amico di Golo osservando il collaudo di due nuovi forni crematori, «potrebbe trovare tutto questo alquanto riprovevole».
Doll, il Comandante, è basato sulla figura di Rudolf Höss, il vero comandante di Auschwitz, processato a Norimberga e impiccato nel 1947. Amis riporta la sua dichiarazione finale, «ho raggiunto l’amara consapevolezza di avere gravemente peccato contro l’umanità». Forse, avendo scelto il taglio grottesco, avrebbe dovuto citare un’altra sua frase. Accusato, nel corso del processo, di essere responsabile della morte di tre milioni e mezzo di persone, replicò: «No, solo due milioni e mezzo, altre cinquecentomila morirono di stenti».
Nel romanzo il Comandante è un uomo viscido e meschino, che beve come una spugna e che deve subire il disprezzo della moglie. «Sono giunto alla conclusione che è stato davvero un tragico errore: sposare una donna così alta». Si rifà con la giovane Alisz che è piccolina, che mette incinta e che fa abortire ovviamente di nascosto: senza anestesia. Quando la descrive, le parti del corpo sono scritte in tedesco. Unterschenkel, gambe, un po’ corte; Hinterteil, natiche, superbe; Busen, tette, niente di speciale; e Sitzflache, posteriore, su quello non si discute. La ragione di questa scelta linguistica non è chiara; ma non riguarda solo la descrizione di Alisz, è un vezzo narrativo, forse dettato dall’intento di rendere più «tedesco» il modo di esprimersi del personaggio. D’altronde a un certo punto del romanzo leggiamo che Golo Thomsen si chiede se la storia del nazismo «si sarebbe mai potuta svolgere in una qualunque altra lingua».
Doll è uno dei narratori del romanzo. Un secondo narratore è Golo; un terzo narratore (dallo spazio limitato) è Szmul, il capo dei Sonderkommando, i prigionieri che «lavoravano» nei forni crematori. E’ a lui che è affidata la dimensione tragica dell’Olocausto, quasi en passant, come a suggerire la difficoltà di raccontare o anche soltanto di commentare quell’immane tragedia con gli strumenti della letteratura. Il libro, leggiamo nell’ultima pagina, è dedicato alla memoria di Primo Levi e di Paul Celan, ai due sopravvissuti che ci riuscirono. Amis sa bene che poteva muoversi soltanto su un altro piano; e sa di dover rendere loro omaggio.
Resta tuttavia la necessità di interrogarsi sulla sua scelta. In passato Amis ha spesso voluto affrontare i Grandi Temi. La guerra nucleare in I mostri di Einstein, lo stalinismo in Koba il Terribile, la rivoluzione femminista in La vedova incinta, l’undici settembre in Il secondo aereo. Dell’Olocausto già aveva parlato nella Freccia del tempo. Rispetto a molti scrittori impegnati a indagare piccole vicende private, ben venga l’ambizione di affidare alla letteratura la riflessione sulle grandi questioni che riguardano l’intera umanità. Il problema è non farsi prendere la mano dal proprio ruolo di narratore, proponendosi come inventore di storie che alla Storia ambiguamente si richiamano.
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