*** Autore: Indro Montanelli, Mario Cervi
Titolo: L'Italia di Berlusconi (1993-1995)
Casa Editrice: Rizzoli
Isbn: 9788817428101
Anno edizione: 1a ed. 1995 Copertina: rigida con cofanetto
Pagine: 462
Misure: 12 cm x 19 cm
Descrizione: etichetta libreria in penultima pagina, ottime condizioni.
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Le informazioni nella sezione "Riassunto" possono far riferimento a edizioni diverse di questo titolo.
Montanelli: questo Paese salvato dagli anti italiani. Da Cavour a Longanesi, il coraggio di andare controcorrente
Bruno Quaranta, Tuttolibri - La Stampa
Torino. Nel ristorante che si allarga dov'era lo studio di Cavour, a pochi passi da Palazzo Carignano, dal Parlamento subalpino, forse è incauto evocare Berlusconi. Epperò il Cavaliere è il protagonista e l'antagonista di questo estremo scorcio d'Italia. Al punto che Indro Montanelli e Mario Cervi hanno titolato la loro quasi annuale scommessa di raccontare la commedia nostrana - la decima insieme - L'Italia di Berlusconi. "A statisti come Cavour e Giolitti, Berlusconi non può essere accostato se non da Emilio Fede", vetrioleggia sulla pagina l'affiatata coppia. In diretta, Montanelli arrota: "Siamo nella città di Gobetti, no? E dunque: come direbbe il direttore di La Rivoluzione Liberale Berlusconi è l'autobiografia della nazione. Ha lusingato il peggio degli italiani: la superficialità, il cinismo, il culto dell'immagine, la vocazione limpidissima alle sagre, ai gesti". Ma non è irato, Montanelli. Né indulge alla rassegnazione. È elegantemente indaffarato a onorare il suo mestiere, che è quello del testimone, "in uno Stivale tutto paraocchi".
Oscilla fra il Corriere della Sera e Telemontecarlo, il maledetto toscano di Fucecchio, classe 1909. "In realtà, fra le mura di via Solferino non trascorro molte ore. E comunque non nella stanza che dividevo con Montale, Piovene, Buzzati. Sto nell'ufficio che era dei Crespi, ancorato alla mia Olivetti 32. Un luogo intonato al mammut che sono, a cui di tanto in tanto si rende esotica visita. No, nello studio di Albertini non mi trasferirò. È necessario smentire le voci che mi vogliono direttore?". Di Telemontecarlo, Montanelli è l'intervistatore principe: ieri Andreotti, oggi l'avvocato Agnelli, nello scenario "stupefacente" del Lingotto ("Sì, 'un immenso deposito di fatiche', come lo avrebbe sentito il mio Cattaneo"), domani, chissà, Giovanni Paolo II: "Una volta mi invitò a colazione, avvolgendo il colloquio nel massimo riserbo. Mi limito a rivelare che la cucina - tonno e patate lesse - non mi sedusse. Lo stesso cuoco di Palazzo Chigi - presidente del Consiglio Lamberto Dini - non mi ha ammaliato. È a ogni modo vero che il giudizio di un ospite inappetente ha scarso peso".
Trentotto anni è lunga la Storia d'Italia montanelliana, "compilata" un po' a due mani, un po' a quattro (prima in tandem con Roberto Gervaso, poi con Mario Cervi). Il debutto nel '57, mentre maturava l'apertura a sinistra, in embrione il boom economico: "Certo, la nostra vitalità indisciplinata... Ma le ragioni autentiche del miracolo - smitizza Montanelli - travalicano i confini nazionali: gli altri Paesi - siamo schietti - stavano assai meno bene di noi".
La stagione migliore dell'ultimo mezzo secolo? "Appena terminata la guerra. Ricostruimmo obbedendo all'unica legge che sappiamo rispettare: ciascuno per sé e Dio non per tutti". Gli uomini esemplari? "Coloro che avevano il senso dello Stato: De Gasperi, Einaudi, Saragat, La Malfa, figure oneste, odoranti di bucato". E i misteri irrisolti? "Di sicuro non l'affaire Moro. Gli assassini li conosciamo, suvvia... Circa le stragi, è probabile che i servizi segreti abbiano fatto poco o, meglio, nulla per venirne a capo. Ma di qui a imputarle a un Grande Vecchio...". Dalla Storia di Roma all'Italia di Berlusconi, ventidue volumi. "Almeno una lacuna hanno colmato - rivendica Montanelli -, la voragine carissima alle baronie: una narrazione semplice, un racconto cordiale". L'accordo, al riguardo, sembra unanime. Difettano, viceversa, le patenti scientifiche: "Un solo accademico ebbe il coraggio di rompere l'omertà, riconoscendo, sia pure non ad alta voce, la serietà dell'impresa: Rosario Romeo".
Rieccoci a Cavour (Romeo ne è il biografo definitivo), al Risorgimento. "Io vedo nel Risorgimento e in tutto quello che lo preparò l'unica cosa nobile e bella che l'Italia abbia fatto negli ultimi quattrocento anni", mise a suo tempo nero su bianco Montanelli. Parole, va da sé, corroborate di nuovi inchiostri nel rifugio del signor Conte: "Il Risorgimento, sia chiaro, fu il frutto del suo genio. Ancorché guastato dalla pazzia di Garibaldi, non per niente caro a Bettino Craxi". Il bislacco eroe dei due mondi, l'ottocentesca sventura aggiuntasi a due, maiuscoli vuoti: la Riforma e la Rivoluzione borghese. "Con la Controriforma più effetto che causa della putrefazione italica. La necrosi (occultata dal talento artistico) è già individuabile nel Rinascimento".
Di necrosi in necrosi, si è arrivati al bienniò 93-'95. Turandosi il naso. "Nell'Italia di Berlusconi - così Montanelli e Cervi suggellano il viaggio nell'età contemporanea - tutto desinit in piscem, finisce in pesce. Come nelle Italie precedenti". E domani? "Se mi travestissi da ottimista - azzarda il fondatore di Il Giornale e La Voce - annuncerei il consolidamento dell'Italia di Dini. Ma Dini vorrà restare in campo? E, eventualmente, glielo consentiranno?". Il "pesce", il ventre molle, il trasformismo, gli eterni accomodamenti... L'antitesi della gente toscana, che - ebbe occasione di annotare Ottone Rosai - "ha tutto in comune con le piante più essenziali della regione: secca e irsuta come le viti, forte e serena come le quercie e i castani, bitorsoluta e contorta come gli ulivi...".
"No, il Polo non lo voterò - assicura Montanelli -. Non ho alternative, non mi resta che l'Ulivo. Anche se non gli attribuisco capacità taumaturgiche: lo contraddistingue l'innocuità, la placidità del suo leader, Romano Prodi, un emiliano, non un toscanaccio". Ma non è la squadra, il gruppo, il "cartello" di forze, il coro l'humus di Indro Montanelli, una vita da irriducibile anarchico conservatore. "Ciò che d'Italia si è edificato e resiste - sono assolutamente convinto - è opera di antiitaliani, ovvero di spiriti vertebrati, di coscienze morali, civili, libere. Ora in piccionaia (da Longanesi a Maccari) ora sul palco (i mai abbastanza ricordati Cavour, De Gasperi, Einaudi)". Il caso vuole che non lontano dallo studio-ristorante in cui aleggia il Conte vi sia una mostra di Mino Maccari. Quel Maccari che di trasloco in trasloco accompagna Montanelli, sotto forma di un acquarello ritoccato da Longanesi (bizzarrissimo connubio), un unicum. La didascalia di una vignetta gronda dell'aceto di un Controcorrente: "Per fortuna la democrazia permette anche di contare gli imbecilli".
Il Montanelli che si accomiata da Cavour ha un'andatura snella, l'antico difetto è pressoché annullato: "Emilio Cecchi mi aveva profetizzato un destino sciancato: 'Una gamba in direzione di Prezzolini, l'altra in direzione di Gobetti'. La differenza fra i due? In breve: Prezzolini credeva irredimibili gli italiani, Gobetti no, ardeva in un sacro fuoco pedagogico. Prezzolini se ne è andato centenario, Gobetti giovanissimo. Io, di anni, ne ho accumulati ottantasei. Va da sé che mi scopra sempre più vicino a Prezzolini, nell'anagrafe come nel pessimismo".
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